Se Bush il liberista si converte alle teorie keynesiane


Sono passati circa 80 anni dalla grande crisi del 1929-1933, un fenomeno che fece crollare l’economia americana, prima, e quella delle altre nazioni economicamente sviluppate, poi. Quel crac diede ragione a una scuola economica e di pensiero che faceva capo all’economista John Maynard Keynes: il padre del welfare state (o stato sociale). Lo studioso britannico, infatti, sosteneva che nei periodi di recessione, caratterizzati da calo della domanda, calo degli investimenti, aumento della disoccupazione e aspettative negative per il futuro, soltanto attraverso l’intervento dello Stato, soprattutto con massicci investimenti pubblici in conto capitale, si poteva invertire la rotta e rilanciare l’economia. I privati, infatti, nei periodi di crisi non solo non investono, ma disinvestono. Negli anni successivi, tuttavia, le amministrazioni pubbliche applicarono le teorie keynesiane con una certa superficialità, trascurando cioè l’efficienza della spesa, e ciò generò dei deficit di bilancio troppo elevati, come nel caso dell’Italia. Questa disinvolta applicazione delle idee di Keynes ridiede vigore alle teorie liberiste, le quali, invece, si possono sintetizzare in un noto slogan: «Più privato e meno Stato». Secondo questa visione economica le nazioni dovrebbero limitarsi a fornire qualche fondamentale servizio alla collettività e lasciare tutto il resto nelle mani dei privati, a cominciare da scuola e sanità.
Negli ultimi decenni i sostenitori del «welfare state» sono stati oggetto di critiche aspre da parte dei cosiddetti «liberisti», al punto che il termine «statalista», che dovrebbe individuare chi è favorevole all’intervento dell’ente pubblico nell’economia, è stato usato da qualche politico in senso dispregiativo, a mo’ di ingiuria. Secondo i liberisti occorre deregolamentare per favorire una più agevole presenza degli operatori privati in tutti i comparti economici: lo Stato è inefficiente e sprecone, il privato no. Oltre agli 80 miliardi di dollari, già stanziati nei giorni scorsi per scongiurare anche il fallimento della Aig, l’Amministrazione americana stava per varare un gigantesco piano di interventi di circa 700 miliardi di dollari per salvare l’economia. Tale piano, però, è stato momentaneamente fermato dal Congresso, ma tutto fa supporre che nelle prossime settimane possa ottenere il via il cosiddetto «piano B», che finalmente permetterà al tesoro degli Stati Uniti di intervenire per nazionalizzare tutte le banche a rischio fallimento. Insomma, una serie di iniziative pubbliche che farebbero impallidire persino Bertinotti e compagni.

Giuseppe Iaconis

Pubblicato sulla Gazzetta del Sud in data 3 ottobre 2008